Suona la campanella. 

Entra in classe l'esperto o l'esperta. Si parla di rispetto, di empatia, di relazioni. 

Viene mostrata qualche slide d'impatto e si fa, insieme, qualche attività o gioco di ruolo. 

Poi, suona la campanella. 

Si riparte. Nei corridoi della scuola resta appeso un poster colorato con lo slogan "NO AL BULLISMO". 


Cosa succede un'ora dopo, durante la ricreazione? O la sera, nella chat di classe su WhatsApp? 

Cosa ha portato quella ragazza adolescente, nel 2016, a lanciarsi giù dal secondo piano e avere la vita salva per miracolo? 

Da decenni affrontiamo il problema con un approccio verticale. Dall'alto verso il basso. 

Noi adulti vediamo il fenomeno, lo analizziamo, lo categorizziamo. 

I ragazzi e le ragazze lo vivono. 

E forse, proprio per questo, certe soluzioni sono sempre state sotto i nostri occhi, ma erano nascoste dove non avevamo pensato di guardare.

Immagina un'aula qualunque nel profondo sud. Un gruppo di ragazzi e ragazze di quattordici anni. Non hanno letto saggi di pedagogia, non conoscono le statistiche nazionali. Però conoscono i loro compagni. Conoscono gli sguardi, i silenzi, le dinamiche nel loro piccolo mondo. E sono stanchi, sono stanche. 

Cosa fanno? Non si limitano a lamentarsi. Decidono di agire, prendendo in mano la situazione. E la loro idea è tanto semplice quanto rivoluzionaria. L'adulto non viene escluso, ma il suo ruolo cambia: da protagonista a regista, da attore principale a mentore. Le redini passano a loro, a chi vive quel mondo, a chi conosce il problema del bullismo dall'interno.

Nascono così figure come i "Bulliziotti" e le "Bulliziotte": studenti e studentesse che si prendono la responsabilità di vegliare su altre persone. E qui arriva il vero cambio di paradigma. L'obiettivo non è solo consolare la vittima e punire il colpevole. La missione diventa più ambiziosa: aiutare il bullo o la bulla a capire, a superare il proprio problema.

A primo impatto può suonare strano: siamo abituati a una narrazione semplice. C'è un buono e c'è un cattivo. Ma se il bullo o la bulla non fossero solo "cattivi", ma parte un anello debole di un sistema che non funziona? Se il loro comportamento fosse il sintomo, e non la malattia? Aiutarli significa disinnescare le ragioni del loro agire. Significa smontare il meccanismo dall'interno. È l'unica mossa che può portare a una pace duratura, non a una semplice tregua.

Questa non è la sceneggiatura di un film. È la storia vera di Mabasta, un movimento nato dal basso, nelle aule, non nelle sale conferenze. Un modello strutturato, con sei azioni concrete e replicabili, che sta contagiando migliaia di classi in tutta Italia e ha un preciso obiettivo: eliminare il bullismo, debullizzando tutte le classi d'Italia.

Può davvero un'idea nata da un gruppo di adolescenti avere un impatto così profondo?

Guarda il video e scopri la storia di Mabasta raccontata direttamente da uno dei fondatori, Mirko Cazzato.